Le operazioni di finanziamento in pool realizzate da un istituto di credito autorizzato in Italia con la partecipazione "maggioritaria" di un istituto di credito straniero non autorizzato all'esercizio dell'attività bancaria in Italia, integrano il reato di esercizio abusivo di attività finanziaria di cui all'articolo 132 del d.lgs 385/1993 (di seguito Testo Unico Bancario o TUB).
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 12777 del 22 marzo 2019 (cliccando qui potete scaricare la Sentenza) pronunciandosi sulla legittimità della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Bologna in data 29 novembre 2017.
La Sentenza fa riferimento alle attività svolte, tra maggio 2016 e novembre 2018, da Credito di Romagna S.p.A. (di seguito CR) e da Bancario Sanmarinese S.p.a. (di seguito IBS) le quali hanno perfezionato diverse operazioni di finanziamento in pool in cui CR figurava con il ruolo di fronting bank.
Tra le due banche sussisteva un rapporto giuridico qualificato tra le parti come mandato senza rappresentanza e regolato da una convenzione interbancaria in forza della quale IBS, in assenza di autorizzazione ad operare in Italia, si sarebbe dovuta limitare a finanziare la banca italiana la quale avrebbe dovuto intrattenere in via esclusiva i rapporti con i terzi finanziati. Tuttavia, nonostante il nomen juris qualificasse il rapporto tra i due istituti come un mandato senza rappresentanza, La Corte di Cassazione ha individuato nella Sentenza in parola una serie di "indici sintomatici", la cui presenza dissimula, in realtà, un'attività finanziaria nei confronti del cliente finale svolta anche direttamente dalla banca partecipante estera.
Gli indici sono i seguenti:
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il riparto del rischio di insolvenza tra i due istituti: se il mutuo fosse intercorso solo tra CR ed il singolo cliente, la relativa esposizione sarebbe gravata soltanto sulla banca italiana;
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l'autonoma valutazione del merito creditizio del singolo mutuatario formulata da IBS: se la controparte contrattuale fosse stata soltanto la banca italiana, avrebbe dovuto essere indifferente la solvibilità del terzo, rilevando soltanto la solvibilità dell'istituto di credito finanziato;
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la sottoscrizione per conoscenza, da parte del cliente, della convenzione interbancaria stipulata tra IBS e CR: se IBS fosse stata estranea al rapporto con il mutuatario, non vi sarebbe stata ragione di mettere il cliente al corrente della provenienza di una parte della provvista da parte dell'istituto estero;
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i poteri di ingerenza di IBS nella fase attuativa del rapporto, con la previsione del diritto di essere informata e di approvare tutte le circostanze idonee a modificare le valutazioni del merito creditizio del mutuatario;
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il maggior impegno finanziario di IBS rispetto a CR nella erogazione delle somme;
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la segnalazione alla centrale dei rischi, da parte di CR, soltanto dell'importo relativo alla propria esposizione verso il cliente, e non quello complessivo del finanziamento: se il rapporto fosse stato esclusivamente tra CR ed i singoli clienti, l'esposizione della banca italiana sarebbe stata pari all'intero importo del finanziamento, e non solo alla propria quota.
Le conclusioni cui giunge la Suprema Corte fanno emergere che nelle operazioni di finanziamento in pool non rileva la dicotomia forma/sostanza, ma appare più appropriata ed applicabile la dicotomia fatto/diritto.
E infatti la convenzione interbancaria stipulata tra CR e IBS, prevedendo dei poteri di ingerenza di IBS sia nella fase precontrattuale (di valutazione di merito creditorio), sia contrattuale (all'articolo 9 della convenzione interbancaria è riconosciuta ad IBS la possibilità di esperire azioni legali dirette nei confronti dei soggetti finanziati ulteriori rispetto a quelle previste dalla normativa codicistica), maschera l'erogazione indiretta dei finanziamenti da parte di IBS a favore del cliente finale.
I destinatari di questa interpretazione della Suprema Corte sono potenzialmente tutti gli istituti di credito stranieri non autorizzati all'erogazione del credito in Italia che operano per interposta persona; la Corte infatti, pur non avendo esplicitato questo divieto, ha tuttavia chiaramente individuato degli elementi, i così detti "indici sintomatici", che fanno presumere l'attività di direct lending attraverso una modalità alternativa di realizzazione.